Morte di una pakistana
Hina Saleem è stata uccisa dai genitori per lo stile di vita lontano dalle regole previste dalle leggi islamiche.
Quando ho appreso la notizia del ritrovamento del cadavere ho subito pensato a “Jamila”.
“Il libraio di Kabul” l’ho trovato in uno scaffale di un supermercato sepolto da altri libri. Era in offerta e l'ho acquistato.
All’inizio la lettura era un po’ noiosa, ma via via che le pagine scorrevano, incominciavo a calarmi nella vita afgana, vivevo insieme al libraio Sultan Khan la sofferenza per la distruzione dei libri della sua biblioteca, sentivo il profumo del thè, la polvere delle strade, gli spari dei talebani, i canti disperati e sommessi delle donne consapevoli che per loro l’amore era solo un tabù: i giovani non hanno il diritto di incontrarsi, amarsi , scegliersi.
Protestano con “il suicidio e il canto”, scrive il poeta afgano Sayd Bahodine Majrouh (ucciso dai fondamentalisti a Peshawar nel 1988) in un libro che riporta le voci delle donne pashtun.
Queste poesie o composizioni in rima vivono passando di bocca in bocca, si scambiano vicino ai pozzi, andando al lavoro nei campi, accanto al forno. Raccontano di amori proibiti, in cui l’uomo amato non è mai quello con cui la donna è sposata, e dell’odio per il marito spesso più anziano. Ma esprimono anche il coraggio e l’orgoglio di essere donna. Questi canti si chiamano landay, che significa “corto”. Sono solo di poche righe, brevi e ritmati, “come un grido o una pugnalata”.
* * *
Crudeli, voi che vedete un vecchio
avvicinarsi al mio letto
e mi chiedete perché piango e mi strappo i capelli.
Oh, mio Dio! Hai fatto scendere su di me
la notte oscura
e di nuovo tremo da capo a piedi
perché devo infilarmi in quel letto che odio.
* * *
...e poi compare Jamila..
[…] Sharifa sospira. Pensa alla punizione toccata a Jamila, sua cognata.
Un uomo era stato visto intrufolarsi attraverso la sua finestra.
L’uomo non erano riusciti ad acciuffarlo, ma i fratelli di Sharifa avevano trovato il suo cellulare nella stanza di Jamila a testimonianza della relazione. La famiglia di Sharifa aveva subito annullato il matrimonio e rimandato la donna a casa dei suoi familiari. L’avevano chiusa a chiave in una stanza, mentre i membri della famiglia si erano riuniti in consiglio per due giorni e due notti.
Dopo tre giorni il fratello di Jamila si era presentato a casa loro raccontando che sua sorella era morta a causa di un cortocircuito di un ventilatore.
Il giorno successivo si era svolto il funerale. Tantissimi fiori, tantissimi volti seri. La madre e la sorella di Jamila erano inconsolabili. Tutti si erano rammaricati della breve vita che le era toccata.
[…] Sharifa sospira. Jamila aveva commesso un grave misfatto, ma più per stupidità che per malvagità.
“Non meritava la morte. Ma sia fatta la volontà di Allah”, mormora, e sussurra una preghiera.
C’è una cosa di cui comunque non riesce a capacitarsi: quei due giorni e due notti di consiglio di famiglia in cui la madre di Jamila-la madre- aveva dato il suo consenso all’uccisione. Alla fine era stata lei, la madre, a mandare i tre figli maschi a uccidere la propria figlia. I fratelli erano entrati insieme nella stanza della sorella. Insieme le avevano messo un cuscino sul volto, insieme lo avevano tenuto premuto con forza, sempre di più, fino a che il corpo di lei si era spento.
Prima di tornare dalla madre.
(Asne Seirstad, Il libraio di Kabul)
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