
"Memorie di Adriano"
Marguerite Yourcenar
Animula vagula, blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula, rigida, nudula,
Nec, ut soles, dabis iocos...
P. Aelius, Hadrianus, Imp.
...Un tempo, ho creduto che un certo gusto per la bellezza avrebbe surrogato per me la virtù, e avrebbe saputo immunizzarmi dalle tentazioni troppo volgari. M'ingannavo. Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d'oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell'intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni. Per un uomo di gusto, poi, l'ostacolo più grave consiste nel fatto di occupare una posizione preminente, che implica ineluttabilmente il rischio dell'adulazione e della menzogna. Il pensiero che in mia presenza qualcuno snaturi, sia pure di un'ombra, l'esser suo, piò giungere a farmelo compiangere, disprezzare, odiare persino. Ho sofferto di questi inconvenienti della mia fortuna come un povero di quelli della sua miseria. Ancora un passo, e avrei accettato la finzione che consiste nel pretendere di sedurre, quando si sa bene che ci si impone: ma di qui si comincia a esser nauseati, o forse imbecilli. Si finirebbe per preferire agli accorgimenti leggeri della seduzione le verità brutali della dissolutezza se anche qui non regnasse la menzogna. Sono pronto ad ammettere per principio che la prostituzione non sia che un'arte, alla stessa stregua del massaggio e della pettinatura, ma mi riesce già difficile andare di buon grado dal barbiere o dal massaggiatore. Non ci sono al mondo persone più volgari dei nostri complici. L'occhiata obliqua dell'oste che mi riserva il vino migliore, e per conseguenza ne priva qualcun altro, bastava già, nei giorni della mia giovinezza, a ispirarmi un profondo disgusto per gli svaghi di Roma. Non mi piace che un individuo ritenga di conoscer già il mio desiderio, prevederlo, adattarsi meccanicamente a quella che suppone la mia scelta: l'immagine bassa e deforme di me stesso, che mi offre in quei momenti quell'individuo, mi farebbe preferire i tristi effetti dell'ascetismo. Se la leggenda non ha esagerato gli eccessi di Nerone e le ricerche sapienti di Tiberio, quei voraci consumatori di piaceri dovevano avere sensi molto inerti per andar cercando apparati così complicati, e uno straordinario disprezzo degli uomini per tollerare che si ridesse o si abusasse di loro fino a quel punto. E tuttavia, se ho quasi rinunciato a queste forme troppo meccaniche del piacere, o almeno non mi sono spinto molto avanti, lo devo più alla mia buona sorte che a una virtù che non sa resistere a nulla. Potrei ricadervi, ora che invecchiato, come in una sregolatezza qualunque, o nel tedio. La malattia, la morte ormai imminente, mi salveranno forse dalla ripetizione monotona degli stessi gesti; e come il compitare stentato d'una lezione imparata a memoria.
Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l'agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un'appendice dell'amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m'interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per sé stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l'uomo, ignudo, solo, inerme, s'avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta - i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c'impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l'arte consistono nell'abbandonarsi deliberatamente a quest'incoscienza felice, nell'accettare di essere più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell'esser nostro. Tornerò in seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni fulminei dell'adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d'un tratto entro un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si assaporava, per così dire, il senso puro dell'essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo estenuanti battute di caccia: mi destava l'abbaiare dei cani, o le loro zampe ritte sul mio petto. Era un'eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto ridestarmi diverso, e mi sorprendevo - mi dolevo, a volte - della disposizione rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell'angusta particella di umanità che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell'uomo vuoto di sé, quell'esistenza senza passato?
D'altro canto, anche la malattia e l'età hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d'altri tempi. Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato, una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l'altra, queste attività differenti, per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me, non per sospetto - tutt'altro - come si immagina, ma perché così mi concedo il lusso d'esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai.
La clessidra mi provò che avevo dormito appena un'ora; un breve momento di abbandono totale, all'età mia, equivale ai sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più brevi. Ma era bastata un'ora sola per compiere l'umile e sorprendente prodigio: il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso a operare, quasi di buona lena; la vita come una fonte non molto copiosa, ma sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m'aveva fatto ricuperare il dispendio dovuto all'attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di ristoro consiste nell'operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto della sua persona, come l'acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna pena di sapere chi beve alla sorgente.
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno che assorbe almeno un terzo dell'esistenza di ognuno di noi perché è necessaria una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide di giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi, non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia porta. Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o della saggia follia dei sonni? L'uomo che non dorme - da qualche mese a questa parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso - si rifiuta più o meno consapevolmente di affidarsi all'onda delle cose. Fratello della morte... S'ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l'iperbole d'un retore. Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so bene; mi sfuggivano, anche. E non c'è uomo che non provi vergogna del proprio viso, guasto dal sonno. Quante volte levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...

Di tutti i piaceri che lentamente mi abbandonano, uno dei più preziosi, e più comuni al tempo stesso, è il sonno. Chi dorme poco o male, sostenuto da molti guanciali, ha tutto l'agio per meditare su questa voluttà particolare. Ammetto che il sonno perfetto è quasi necessariamente un'appendice dell'amore: come un riposo riverberato, riflesso in due corpi. Ma qui m'interessa quel particolare mistero del sonno, goduto per sé stesso, quel tuffo inevitabile nel quale l'uomo, ignudo, solo, inerme, s'avventura ogni sera in un oceano, nel quale ogni cosa muta - i colori, la densità delle cose, persino il ritmo del respiro, un oceano nel quale ci vengono incontro i morti. Nel sonno, una cosa ci rassicura, ed è il fatto di uscirne, e di uscirne immutati, dato che una proibizione bizzarra c'impedisce di riportare con noi il residuo esatto dei nostri sogni. Ci rassicura altresì il fatto che il sonno ci guarisce dalla stanchezza; ma ce ne guarisce temporaneamente, e mediante il procedimento più radicale riuscendo a fare che non siamo più. Qui, come in altre cose, il piacere e l'arte consistono nell'abbandonarsi deliberatamente a quest'incoscienza felice, nell'accettare di essere più deboli, più pesanti, più leggeri, più vaghi dell'esser nostro. Tornerò in seguito sulla popolazione prodigiosa dei sogni: preferisco parlare di certe esperienze di sonno puro, di puro risveglio, che confinano con la morte e la risurrezione. Cerco di riafferrare la sensazione precisa di certi sonni fulminei dell'adolescenza, quando si piombava addormentati sui libri, ancora vestiti, e dalla matematica o dal diritto si era trasportati d'un tratto entro un sonno duro e compatto, denso di energie potenziali, tanto che vi si assaporava, per così dire, il senso puro dell'essere attraverso le palpebre chiuse. Evoco i sonni repentini sulla nuda terra, nella foresta, dopo estenuanti battute di caccia: mi destava l'abbaiare dei cani, o le loro zampe ritte sul mio petto. Era un'eclissi così totale che, ogni volta, avrei potuto ridestarmi diverso, e mi sorprendevo - mi dolevo, a volte - della disposizione rigorosa che mi riconduceva da così lontano nell'angusta particella di umanità che è la mia. In che cosa consistono le caratteristiche alle quali teniamo di più, se contano così poco per chi dorme, e se per un istante, prima di rientrare di malavoglia nel mio guscio di Adriano, giungevo ad assaporare quasi coscientemente quell'uomo vuoto di sé, quell'esistenza senza passato?
D'altro canto, anche la malattia e l'età hanno i loro aspetti straordinari, e ricevono dal sonno altri favori, sotto altre forme: circa un anno fa, dopo una giornata particolarmente estenuante, a Roma, ho avuto uno di quei riposi in cui la spossatezza ha operato gli stessi miracoli, o meglio, altri miracoli, che le riserve inesauste d'altri tempi. Vado raramente in città, ormai; e, quando ci vado, cerco di sbrigare più cose che posso. Avevo avuto una giornata sgradevole, densa: una seduta in Senato, una in tribunale, e una discussione interminabile con uno dei questori; e infine, una cerimonia religiosa che non fu possibile abbreviare, sotto la pioggia. Avevo predisposto io stesso, una dopo l'altra, queste attività differenti, per lasciare il minor tempo possibile, negli intervalli, agli importuni e agli adulatori. Tornai a cavallo: fu una delle ultime volte. Rientrai in Villa depresso, accasciato, infreddolito come si può esserlo solo quando il sangue sembra fermare il suo corso, e non agisce più nelle arterie. Celere e Cabria si prodigavano intorno a me, ma le premure possono stancare, anche se sincere. Mi chiusi in camera, ingoiai poche cucchiaiate di brodo caldo, che preparai da me, non per sospetto - tutt'altro - come si immagina, ma perché così mi concedo il lusso d'esser solo. Mi misi a letto; il sonno pareva tanto lontano quanto la salute, la giovinezza, il vigore. Mi addormentai.
La clessidra mi provò che avevo dormito appena un'ora; un breve momento di abbandono totale, all'età mia, equivale ai sonni che in altri tempi duravano quanto impiegano gli astri a compiere per metà il loro percorso. Il tempo ormai si misura per me in unità molto più brevi. Ma era bastata un'ora sola per compiere l'umile e sorprendente prodigio: il calore del sangue mi riscaldava le mani; il cuore, i polmoni avevano ripreso a operare, quasi di buona lena; la vita come una fonte non molto copiosa, ma sicura. In così breve lasso di tempo, il sonno m'aveva fatto ricuperare il dispendio dovuto all'attività, con la stessa imparzialità con la quale avrebbe riparato gli eccessi del vizio. La divinità di questo grande donatore di ristoro consiste nell'operare i suoi benefici su chi dorme senza tener conto della sua persona, come l'acqua ricca di poteri terapeutici non si dà alcuna pena di sapere chi beve alla sorgente.
Ma ci occupiamo tanto poco di un fenomeno che assorbe almeno un terzo dell'esistenza di ognuno di noi perché è necessaria una certa dose di modestia per apprezzarne i doni: Caio Caligola e Aristide di giusto si equivalgono nel sonno. Io depongo i miei vani e pomposi privilegi, non mi distinguo più dal guardiano negro che dorme di traverso davanti alla mia porta. Che cos'è l'insonnia se non la maniaca ostinazione della nostra mente a fabbricare pensieri, ragionamenti, sillogismi e definizioni tutte sue, il rifiuto di abdicare di fronte alla divina incoscienza degli occhi chiusi o della saggia follia dei sonni? L'uomo che non dorme - da qualche mese a questa parte ho fin troppe occasioni di constatarlo su me stesso - si rifiuta più o meno consapevolmente di affidarsi all'onda delle cose. Fratello della morte... S'ingannava, Isocrate, e la sua frase non è altro che l'iperbole d'un retore. Comincio a conoscerla, la morte: essa cela altri segreti, ben più estranei alla nostra attuale condizione di uomini. E tuttavia, questi misteri di assenza, di oblio parziale sono così intricati e profondi che avvertiamo distintamente la sorgente chiara e quella oscura confluire chissà dove. Non mi è mai piaciuto guardare le persone che amavo mentre dormivano: si riposavano di me, lo so bene; mi sfuggivano, anche. E non c'è uomo che non provi vergogna del proprio viso, guasto dal sonno. Quante volte levandomi alle prime ore del mattino per studiare o per leggere, ho riordinato con le mie mani quei guanciali spiegazzati, quelle coperte in disordine, testimonianze quasi turpi dei nostri incontri con il nulla, prove che ogni notte non siamo già più...

Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t’appresti a scendere in luoghi incolori,
ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora guardiamo insieme le rive famigliari,
le cose che certamente non vedremo mai più
cerchiamo d'entrare nella morte ad occhi aperti....
le cose che certamente non vedremo mai più
cerchiamo d'entrare nella morte ad occhi aperti....

"La data prescelta per questa festa era il giorno anniversario della nascita di Roma, l’ottavo giorno che segue gli idi di aprile, dell’anno 882 dopo la fondazione dell’Urbe.[…] Lo stesso giorno con solennita’ piu’ austera, ma quasi in sordina, ebbe luogo una cerimonia dedicatoria all’interno del Pantheon.
Avevo ritoccato di persona i progetti troppo cauti dell’architetto Apollodoro. Delle arti della Grecia volli servirmi per le decorazioni, come per un lusso supplementare, ma per la struttura dell’edificio ero risalito ai tempi primitivi e favolosi di Roma, ai templi rotondi dell’Etruria antica. Avevo voluto che quel santuario dedicato a tutti gli dèi riproducesse la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. Era quelle inoltre, la forma di quelle capanne ancestrali nelle quali il fumo dei piu’ antichi focolari umani usciva da un orifizio aperto alla sommità. La cupola, costruita d’una lava dura e leggera che pareva partecipe ancora del momento ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro. Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d’oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli dèi.
Quella festa fu per me una di quelle ore nel quale tutto confluisce."
Avevo ritoccato di persona i progetti troppo cauti dell’architetto Apollodoro. Delle arti della Grecia volli servirmi per le decorazioni, come per un lusso supplementare, ma per la struttura dell’edificio ero risalito ai tempi primitivi e favolosi di Roma, ai templi rotondi dell’Etruria antica. Avevo voluto che quel santuario dedicato a tutti gli dèi riproducesse la forma della terra e della sfera stellare, della Terra dove si racchiudono le sementi del fuoco eterno, della sfera cava che tutto contiene. Era quelle inoltre, la forma di quelle capanne ancestrali nelle quali il fumo dei piu’ antichi focolari umani usciva da un orifizio aperto alla sommità. La cupola, costruita d’una lava dura e leggera che pareva partecipe ancora del momento ascensionale delle fiamme, comunicava col cielo attraverso un largo foro, alternativamente nero e azzurro. Quel tempio aperto e segreto era concepito come un quadrante solare. Le ore avrebbero percorso in circolo i suoi riquadri, accuratamente levigati da artigiani greci: il disco vi sarebbe rimasto sospeso come uno scudo d’oro; la pioggia avrebbe formato una pozzanghera pura sul pavimento; la preghiera sarebbe volata simile al fumo verso quel vuoto nel quale collochiamo gli dèi.
Quella festa fu per me una di quelle ore nel quale tutto confluisce."
Testi tratti da "Memorie di Adriano"
Marguerite Yourcenar
Etichette: letteratura, Yourcenar
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